venerdì 7 novembre 2014

EL LOCO

Il giorno che gli tirarono di tutto, Hugo fece pace con il mondo grazie a una scopa. Si avete capito bene una scopa, di quelle che gli addetti dello stadio usavano per ripulire il terreno di gioco dopo la gettata dei coriandoli e delle lunghissime strisce di carta, che come una cascata in piena accoglievano l’ingresso in campo delle squadre. La Bombonera a Hugo Gatti, non aveva immediatamente perdonato il suo passato con la maglia degli odiati rivali del River.

Lo chiamavano il “Loco” di soprannome, cioè matto, e lui effettivamente non faceva nulla per smentire l’accostamento semantico.

Hugo Orlando Gatti, faccia da indio a dispetto di un cognome italianissimo, look istrionico con capelli lunghi stretti sulla fronte da una fascetta da tennista, maglioni variopinti con le sue iniziali a caratteri cubitali, calzettoni cadenti e “decadenti”, unito a un modo originalissimo di intendere il ruolo di portiere che avrebbe fatto proselitismo, nacque a Carlos Tejedor sobborgo della grande Baires, il 19 gennaio 1944.

Gatti debuttò nel massimo campionato argentino appena diciottenne nelle file dell' Atlanta. L’anno dopo però eccolo al River Plate.

E il suo peccato originale si compie.

Eppure lassù nel quartiere benestante di Nunez, era stato chiamato nientemeno che a sostituire Amedeo Carrizo, il più grande numero uno della storia “milionaria”. Fu un fiasco totale, forse anche perché il modo di intendere il gioco di Gatti si discostava davvero troppo da quello più “conforme” del vecchio idolo della tifoseria biancorossa. Così Gatti passò all’Union di Santa Fè, dove incontrò un matto come lui e l’unione delle rispettive pazzie creo il genio. Si trattava di mister Juan Carlos Lorenzo, che quando fu chiamato a dirigere il Boca nel 1976 pensò bene di portarselo dietro seppure per Hugo l’anagrafe non fosse così clemente. E fu amore, tanto amore, ma prima occorse spazzare..

Torniamo all’inizio. Infastidito dai continui lanci di carta e ortaggi verso la sua porta, decise di rispondere con l’ironia. Saltò un cartellone pubblicitario, prese fra le mani una ramazza, e con grande “nonchalance” pulì, da consolidato giardiniere, tutta l’area di rigore.

Incredulità, applausi, totem.

Certo per rafforzare la sua posizione occorse in verità anche qualche bella parata, talmente belle e particolari, da essere, tecnicamente parlando un paradosso del ruolo, ma armonia della bellezza, e ad un certo punto i tifosi del Boca Juniors si divertivano di più a vedere attaccare le squadre avversarie solo per il gusto di guardare le reazioni e gli interventi del loro portiere. E lui il “Loco” lo aveva subito capito, tanto che ormai saldo sul tempio della devozione laica, ogni tanto si metteva pure a dribblare vicino alla sua porta un paio di attaccanti dell’altra squadra. Un giorno del 1977 durante un evidentemente troppo noioso Boca -Independiente, partita in cui il ‘Diablo Rojo’ non tira praticamente mai in porta, Hugo trentaduenne con ancora l’abilità di un felino, decide di arrampicarsi sulla traversa della porta e si siede su essa, così giusto per riposarsi un po’ in attesa di notizie dal campo. La Bombonera ovviamente scoppia in un boato che nemmeno un gol in una finale avrebbe provocato.

Ma c’è dell’altro ed è forse l’aneddoto più famoso, vale a dire una figuraccia che gli inflisse il signor Maradona. Si perché Hugo Gatti ha avuto una carriera talmente sconfinata che ha avuto la fortuna di giocare sia con una leggenda come Amadeo Carrizo, sia con Diego.

E’ l’otto 8 agosto 1980. Il giorno dopo si deve giocare Boca Juniors-Argentinos Juniors.

Tra le fila de “Los Bichos Colorados”, letteralmente le formiche colorate, gioca da qualche anno un giovane calciatore, appena ventenne, etichettato da tutti come colui che diventerà il più grande. Il messia del calcio che antichissime scritture inca avevano annunciato...

Oh, capiamoci, “El pelusa” Maradona lo amano un po’ tutti. Tutti, guarda un po’ tranne che Gatti, a cui quel ragazzo proprio non va a genio. E non ne fa certo un mistero con la stampa e la televisione.

“E' grassottello, “un gordito”.., faccio prima a saltarlo che a giragli intorno. Non potrà mai segnarmi, questo è certo”

Certo. Come le quattro reti che Diego Armando Maradona gli rifilerà in partita..

Tuttavia quando Diego arriverà alla Bombonera fra i due non ci saranno problemi e porteranno a casa la vittoria nel campionato metropolitano del 1981.

Gatti insomma il capitano che riuscì a trasformare l’ossessione dello storico presidente “bochense” Alberto J. Armando in sogno, grazie a quella magnifica sera di Montevideo del 14 settembre 1977, appena dopo essere stato punzecchiato dal suo allenatore Juan Carlo Alberto.
Quattro a quattro ai calci di rigore. Sul dischetto per il Cruzeiro arriva Vanderley Lazaro, difensore tecnicamente blando ed il ‘Loco’ lo sa. Lo annusa come un animale fa con una preda.

Hugo capisce che quel Vanderlei ha paura. Glielo legge negli occhi,
Il tiro è debole, poco convinto, poco angolato, poco tutto. Gatti si butta alla sua sinistra e para il rigore. A trentatré anni l’indio con la fascetta da matto in testa, fa diventare per la prima volta il Boca Juniors campione del Sudamerica.

di Simone Galeotti.


LE POTEAUX CARRES

Affrontare i propri demoni per uscire dal baratro.

In sociologia si parlerebbe di riappropriazione di una parola o di un oggetto considerato beffardo, ma che in tempi successivi è stato fatto proprio da chi era l’obiettivo di tale irrisione. Un fenomeno curioso di cui a Saint Etienne cittadina francese adagiata tra le incantevoli valli della Loira e del Rodano ne vanno particolarmente fieri.

Tutto partì da una telefonata verso la Scozia..

“Eh, buongiorno, parlo con il curatore del Museo di Hampden Park?”

L’ accattivante accento francese, s’infila con perizia nell’orecchio ben più esposto ai grugniti gutturali di Glasgow.

“Si, chi è?”

“Molto piacere, sono il responsabile del Geoffrey Guichard, lo stadio del Saint Etienne, vi ricordate quando nel 1976 abbiamo giocato la finale della Coppa dei Campioni nel vostro stadio contro il Bayern Monaco?

“Si, ed avete perso.”

“Oh, certo,.. ma infatti, in fondo è per quello che la sto chiamando.”

Silenzio. All’altro capo del telefono, nell’ufficio nelle cui ampie finestre, il grigio del cielo si staglia sul verde della zona di Mount Florida, la solida scrivania in noce sta per essere investita dallo schianto della cornetta sul ricevitore…

“No, no, un momento, non sto scherzando, vengo subito al punto, vogliamo comprare i vostri pali delle porte, quelli quadrati... Che adesso avete sostituito, e messo in vetrina...”

Alla parola comprare, da atavico gene mai represso, lo scozzese, riacquista compostezza e serietà.

“Cosa? Volete comprare pali e traverse del vecchio Hampden?”

“Esattamente. Ci hanno portato talmente tanta sfortuna in quella partita, che ci piacerebbe esorcizzare quel momento mettendoli in bella mostra nella nostra sala dei cimeli, al Musèe des Verts...”

Lo scozzese prende tempo. I francesi sono strani e un po’ bigotti, quasi peggio degli inglesi, pensa tra se e se, poi risponde.

“Dovrei consultarmi, con la federazione, con i rappresentanti del…

“Ventimila sterline.”

Una sentenza.

“Affare fatto. Le spese di imballaggio e viaggio a carico vostro però…”

“Certamente... Grazie. Gentilissimi.”

Fu così che tre pezzi di legno consunto e per lo più sverniciato, prenderanno la direzione della Loira, dove saranno esposti nel museo dello stadio dell’ASSE affinché tutti i tifosi del Saint Etienne provino a scongiurare la loro nemesi maledicendo quella traversa, che ora riposa dietro una teca, giurando di averla vista tremare ancora per il tiro di Dominique Bathenay. Non troverete nessuna squadra al mondo pronta ad incolpare il destino beffardo del “borseggio” di un trofeo in bacheca, accusando un colpevole più originale di quello chiamato in causa dal Saint Etienne.

Nel 1976 i Verdi della Loira stanno dominando il calcio francese con la loro supremazia incontrastata. In 13 anni sono arrivati ben otto titoli di campione di Francia, e nella stagione ‘74-‘75 hanno vinto tutte e diciannove le partite casalinghe.

Così tanto tanto per gradire.

L’ASSE (come viene comunemente chiamato dall’acronimo) divenne talmente sinonimo di calcio e vittoria che se oggi la nazionale francese viene chiamata da tutti “Les Bleus”, si deve proprio alla popolarità del Saint Etienne negli anni settanta ed al loro soprannome cromatico, “Les Verts”: per assonanza e per associazione diretta di idee, nonché per la presenza massiccia di giocatori in nazionale, anche la squadra con il gallo sul petto cominciò ad essere chiamata per il colore di maglia, nel coro ormai consolidato "Allez les Bleus".

Il Saint Etienne dell’ineffabile Robert Herbin, imbattibile nel fortino del Geoffrey Guichard nell’anno di grazia ‘74-’75, aggiunse ad una formazione già straordinaria, l’esplosione di Dominique Rocheteau, incantevole ala destra con notevole propensione al gol, che alla sua prima stagione da titolare (e nemmeno a tempo pieno), fermerà il contagiri delle marcature ad undici, dando nuova linfa ad un reparto offensivo già clamoroso di suo, col capitano Jean Michel Larqué, Jacques Santini, e il baffo da villaggio gallico di Hervè Revelli, sempre pronto a dar supporto a centrocampo. Il titolo nazionale diventò una formalità per i verdi e la conquista dell’Europa il sogno nemmeno tanto segreto. D’altra parte l’anno precedente si erano fermati soltanto in semifinale di fronte al Bayern che avrebbe poi alzato la Coppa al Parc des Princes contro il Leeds United, in una delle finali più burrascose di sempre.

Questa volta sembrava l’anno buono. I verdi arrivarono fino in fondo.

Mercoledì 12 maggio 1976 l’ASSE, è in finale di fronte ai soliti tedeschi guidati dalla faccia mansueta da ragazzo del coro di una chiesa bavarese chiamato Franz Beckenbauer.

Un mare verde sciaborda per le strade di vittoriane di Glasgow, da George Square a Buchanan Street, per poi scorrere come unica corrente verso Hampden e verso la storia, dopo che l’ultima formazione francese a giocarsi il trono d’Europa sul finire degli anni cinquanta era stato lo Stade Reims che inesorabilmente aveva sbattuto due volte la testa sullo scoglio bianco del Real Madrid.

Il Bayern detentore del titolo è una corazzata alla sua terza finale consecutiva con una spina vertebrale formata da Sepp Maier in porta, il Kaiser al centro della difesa, un giovane di grandi speranze Karl Heinz Rumenigge schierato per rispetto delle gerarchie in mezzo al campo, e una coppia d’attacco composta da Gerd Muller e Uli Hoeness.

Il Bayern come sempre fa quello che gli viene meglio: attende gli avversari, si difende, cincischia, aspetta il momento buono per colpire.

Il Saint Etienne invece attacca. Una melodia alla quale non rinuncia. La vocazione offensiva non si tradisce, anche se a dirla tutta per la partita più importante dovette fare a meno di Rocheteau, infortunato, solo e triste in panchina, al fischio di inizio dell’arbitro ungherese Károly Palotai.

L’assenza sarebbe stata sicuramente meno pesante se non ci avesse messo lo zampino il destino: per due volte, il Saint Etienne andò vicinissimo al gol. Prima Bathenay con un bel destro da fuori e poi Santini di testa battono Maier, ma non la maledetta traversa. Ed è proprio la traversa che diventerà il capro espiatorio per tutti i tifosi della Loira, perché in quell’ Hampden Park dove ancora il legno primeggiava sul cemento, le porte avevano una caratteristica unica, fuori tempo, e fuori moda: dal 1904 infatti i montanti, pali e traverse, non sono rotondi come negli altri stadi del mondo, ma sono squadrati, dei blocchi tetragoni su cui i tentativi di Bathenay e Jacques Santini vedranno, come in un incubo scritto da Guy de Maupassant, il pallone rimbalzare crudele verso il centro dell’area di rigore, piuttosto che accarezzarlo dolcemente verso la rete, come certamente avrebbe fatto la rotondità, conforto e simbolo di sicurezza materna.

Sì, va ammesso, è una teoria stravagante, ma in fondo chi siamo noi per negare al Saint Etienne la gioia di un simile:

“E se fosse stato così?”

Tant’è, come da preciso copione drammatico, gli scaltri bavaresi colpiranno all’inizio della ripresa con un gol di Franz Roth, discreto mediano di rottura, che aveva il compito di annullare capitan Larqué, mentre l’ASSE si ritrovò a piangere lacrime sui quei “pali quadrati”, quei poteaux carrés, che li perseguiteranno da lì in poi, diventando automaticamente sinonimo della loro squadra: in primis, simbolo di scherno da parte di tifosi avversari, poi come oggetto di osservazione della FIFA che ratificò in via ufficiale la legge sulla rotondità dei montanti proprio in seguito a questo episodio.

Quando l'arbitro fischiò la fine della partita Roth ancora prima di abbracciare i compagni corse verso Larqué che non aveva lasciato in pace per tutto il match per scambiarci la maglia, come a onorare immediatamente la sfortuna riconosciuta del povero Saint-Etienne. Gli dette la mano e una pacca sulla spalla per confortarlo. Bel gesto. Robert Herbin restò qualche minuto in piedi accanto alla panchina, immobile, come qualcuno che ha perso il treno della sua vita, e sa che difficilmente potrà ripassare. Aveva gli occhi rossi, poi sparì nelle viscere scure di Hampden. Nello spogliatoio, nessuno parlò. Lopez, Santini, Repellini, erano in un vuoto di pensiero, nell’ attesa vana di dimenticare. Patrick Revelli, inconsolabile.

Quando Herbin arrivò spese parole semplici, poi un funzionario con voce formale disse che occorreva andare a ritirare le medaglie d'argento.

Ridicolo. Ci andrà il capitano, era un obbligo, occorreva farlo. Larqué non aveva più nemmeno la maglia. Vagamente riconobbe Artemio Franchi il presidente italiano dell' UEFA. La consegna fu veloce. Jean Michel restò impermeabile alle parole di consolazione.

Ritirò le medaglie, non guardò intorno a se. Strinse la mano intontito.

Non vedeva l'ora di tornare a casa. Dagli amici. Lì faceva male ..

di Simone Galeotti.


LE FOLIE CALAIS

A Calais c’è il mare in burrasca.

Oggi non si vedono biancheggiare all’orizzonte le bianche scogliere di Dover.

Volti familiari sferzati dal vento sfiancante, si fondono con quelli di sconosciuti in attesa che quel maledetto specchio di mare distante appena trenta chilometri dall’Inghilterra si calmi e riparta il primo traghetto.

Dovunque un livido d’umidità mista a salsedine, odoraccio d’oceano, e i soliti gabbiani famelici che si attardano come enormi equilibristi su pescherecci sballottati dalle onde.

Calais è un porto di mare nel vero senso del termine. E’ un po' come lasciare la porta di casa aperta con gente che ti entra dentro per prendere un bicchiere d'acqua, e magari va pure in bagno uscendo senza salutare.

I cittadini di Calais appaiono entità invisibili per chi passa di qua.

Ma oggi, finalmente, c’è qualcosa di nuovo, a parte il mare mosso.

Oggi.

Ladislaz Lozano, cinquantenne impiegato comunale d’origini spagnole sfuggito al regime di Franco, è allenatore di calcio per diletto. E’ uscito un momento dal locale per fare due passi sul lungomare da solo nonostante il tempaccio.

L’enorme spiaggia è vuota. Deve respirare e rimettere in ordine i pensieri.

Da poco si è ripreso da un malore causato da eccessivi festeggiamenti, e in ospedale ha ricevuto nientemeno che un telegramma dal Presidente francese Jacques Chirac, che gli augurava ogni bene e gli dava appuntamento a Parigi.

Il motivo? L’aveva combinata grossa.

Lo dice la foto di quella pagina de L'Équipe portata dalle raffiche, che si avvinghia per un attimo indefinito a uno dei pali di legno impregnati di smalto, che sorreggono la “Friterie”..

Il suo Calais ha conquistato la finale della Coppa di Francia battendo a Lens il Bordeaux. E i suoi giocatori ora nella tuta d’ordinanza giallorossa sono a pochi passi da lui a mangiare pesce e mele fritte come hanno fatto tutta la vita, perchè anche adesso che l’intero paese li aveva visti in televisione restano fedeli alla loro ritualità.

La classe operaia va in Paradiso, ma vuole farlo secondo il suo stile.

Da dilettanti della pedata.

Si è vero, c’erano stati autografi, interviste, delle foto con qualche bella donna, ma in fondo eccoli lì, schietti e un pò ingenui, seduti a scherzare, una combriccola di bravi ragazzi.

Un paio di agenti di commercio, un magazziniere, qualche impiegato, un giardiniere, due insegnanti, un imbianchino, un pasticciere, uno studente universitario, un responsabile di campeggio, un parrucchiere, un educatore e l’animatore di un centro sociale.

Mon Dieu.

Come hanno fatto? Come hanno potuto? Chi ha permesso che nell’era del calcio che fa rima con business all’alba del nuovo secolo, questa manica di onesti cittadini prendesse in giro il sistema, i soldi, gli interessi milionari dei club della massima divisione?

Lozano rientra, chiudendosi alla spalle il grigio della Manica, e subito partì l’ennesimo brindisi, l’ennesimo applauso. A capotavola l’unico con due franchi in più in tasca: Jean Marc Puissesseau proprietario e presidente della squadra fondata nel 1902. Questo pazzo, pazzo, Calais Racing Union FC.

Che sia stata tutta colpa del temutissimo Millennium Bug? In fondo è il maggio del 2000.

Bah.

Riprendiamo.

Favola, sogno, copione cinematografico a basso costo. Gente comune che ha vissuto un’esperienza indimenticabile e che dopo la finale è tornata alla sua vita, agli stessi amici, allo stesso impiego.

Giusto, evviva la retorica. Condiamola con l’immedesimazione e il gioco è fatto.

Tuttavia non è così semplice calarsi nella testa di quei giovanotti che nel giro di qualche mese hanno scritto una pagina indelebile di calcio. Una storia corale attraverso una gamma di colori e sfumature varie.

Tutto potrebbe incominciare dall’epilogo. Da quel tabellone del nuovissimo e stracolmo Saint Denis di Parigi che alla fine del primo tempo della finalissima diceva Calais 1 Nantes 0, gol di Jérôme Dutitre al minuto trentaquattro.

Jérôme che lavorava in Comune a Calais, 80000 persone allo sportello non se l’era mai ritrovate tutte in fila e sinceramente è un bene. Quando infilò il pallone alle spalle di Landreau con un sinistro ignorante e basso, la sua esplosione di gioia nel boato è una vertigine senza fondo.

“Alla lunga cederanno”, era l'anatema. Quello che pensavano tutti.

Invece il Calais continuo' a eliminare gli avversari, turno dopo turno.

Negli ottavi occorse andare a giocare a Lens. Troppo piccolo ovviamente il Julien Denis, e troppo modesto anche l’impianto della vicina Boulogne per ospitare il Cannes, squadra cadetta piegata ai calci di rigore. La gioia per aver raggiunto i quarti di finale fu doppia, quando il Calais dovette affrontare una squadra di Ligue 1. Pescarono lo Strasburgo, offrendo una gara splendida, conclusa strepitosamente 2-1, dove si placò anche la sete di vendetta dello stesso Dutitre, smarritosi per responsabilità non accertate proprio nelle giovanili del Racing Club.

Fine dei rimorsi. Si aprirono le porte della semifinale.

E qui contro il Bordeaux avviene un altro miracolo. Il Calais dovette far ricorso a tutte le sue armi fisiche e mentali, gettando letteralmente il cuore oltre l'ostacolo.

Dopo che i 90' regolari si erano chiusi sull'1-1, nell’appendice dei supplementari, sfiniti e con i crampi, i giocatori del Calais riuscirono a segnare due reti nei minuti finali a cavallo del 120esimo. Finì 3-1 con sugli scudi Mathieu Millien, un piccoletto leggermente stempiato, nativo di Calais dove insegnava alle scuole elementari.

Roba da matti.

Riecco Parigi e i giallorossi della costa in vantaggio a metà gara.

Il portiere e bandiera Cédric Schille, cresciuto nel prestigioso Metz ma giunto a Calais con i sogni di gloria calcistica messi anticipatamente in un cassetto, vede dietro l’angolo la sua rivincita personale.

Il capitano difensore Réginald Becque, occupato in un azienda di scaffalature saprebbe già dove poggiare la copia del trofeo.

Mickaël Gérard magazziniere si vede già festante, issato dai colleghi in alto sul suo carrello elevatore giallo.

Il Calais stava giocando la partita perfetta per una squadra del suo genere. Non solo aveva contenuto gli avversari. Era clamorosamente in vantaggio. Ma quel clamoroso ormai era termine fin troppo abusato.

E gli altri? ma si ci stiamo dimenticando degli altri. Del Nantes.

I “canarini” avevano sconfitto in semifinale i campioni di Francia in carica, mostrando una compattezza ed una resistenza fisica impressionanti.

La favola se vogliamo non è a lieto fine.

A quattro minuti dall’inizio del secondo tempo, arrivò il pari del Nantes: a siglarlo è Sibierski, giovane promessa mai mantenuta del calcio transalpino.

E poi, quando ormai tutto sembrava convergere verso l’agonia dei tempi supplementari, ecco che Alain Caveglia si involò verso la porta del Calais, e il giovane Fabrice Baron gli si oppose troppo energicamente. L’esperienza, cioè quella cosa che capisci di possedere nell’ esatto istante in cui commetti un errore, indusse l’arbitro, Claude Colombo a indicare il dischetto.

Un calcio di rigore stregato e in pieno recupero. Il portiere Schille, non si darà mai pace per quell’episodio che a distanza di anni durante la notte, tornerà a visitarlo nei brutti sogni.

L’arbitro fu irremovibile.

Sibierski si occupò della trasformazione. Non era più tempo di miracoli, il pallone venne solo sfiorato dall’estremo difensore che batté con violenza i pugni nell’erba umida del grande stadio parigino.

La coppa se la presero i professionisti.

Eppure, nonostante il Nantes vinse quella Coppa, fu il Calais il vincitore morale della sfida.

L’intero stadio tributò loro un lungo applauso, ed il capitano e portiere del Nantes, Mickaël Landreau, decise di alzare la Coppa insieme a Becque, il capitano dei piccoli dilettanti che avevano fatto innamorare la Francia.

di Simone Galeotti


L'ULTIMO BACIONE A FIRENZE

Tutto stava tornando come prima.

O quasi.

Difficile riprendersi dopo che 250 milioni di metri cubi d’acqua avevano corso lungo le tue strade e un mare di fango aveva travolto tutto, case, botteghe, monumenti.

Il Crocifisso del Cimabue in Santa Croce rovinato per sempre. Le formelle di Lorenzo Ghiberti divelte dalle porte dell’Battistero. Antichi volumi e manoscritti risucchiati e perduti.

Arriveranno da ogni parte d’Italia, gli angeli del fango.

I fiorentini recuperarono il recuperabile.

L’ironia, non l’avevano mai perduta, nemmeno durante i momenti peggiori dell’alluvione di quella maledetta notte del primo novembre 1966.

La stessa ironia che sembrò animare l’allenatore della Viola Bruno Pesaola detto “El Petisso” quando al termine di un amichevole estiva nel 1968 contro gli svizzeri del Grasshoppers sentenziò davanti ai taccuini la frase fatale:

“Signori, ho capito una cosa, se con questa squadra noi non vinciamo lo scudetto divento frate”.

Ecco un altro bischero.

Fu questo il pensiero più o meno sottaciuto della città, che già lo vedeva in saio aggirarsi intorno alla parrocchia di Piazza Savonarola.

Il lavoro del direttore sportivo Nello Baglini che aveva rilevato una Fiorentina con un passivo di 800 milioni, partì in profondità.

Per far capire l’importanza che lui dava ai sacrifici e alla necessità di un attento impiego dei soldi ricordava che quando lui era ragazzo in casa sua il vino lo beveva solo il padre e soltanto la domenica. E ricordava anche che lui non era un mecenate.

Che lo chiamassero pure il Martin Lutero del calcio.

Gli idoli della folla partirono, primo su tutti Kurt Hamrin, ma con lui anche i giovani allevati sui lungarni come il portiere Enrico Albertosi, la mezzapunta Mario Brugnera, andati ambedue al Cagliari, e l’energico mediano Mario Bertini ceduto all’Inter. In compenso il presidente non mancò di investire, scegliendo un ragazzo generoso, leale, geometrico, soprannominato “Picchio”, il centrocampista romano Giancarlo De Sisti che già aveva illuminato con la sua classe i cieli dell’Urbe.

Pesaola non era così ingenuo come in un primo momento si pensò. Il suo primo successo non fu in campo ma fuori.

Il “Petisso” riuscì a placare il bizzoso attaccante Amarildo ritiratosi nel suo Aventino brasiliano. Pesaola lo riportò a Firenze con ampie garanzie di essere il faro della squadra, briglie allentate sul collo e alla fine qualche lira in più sul conto corrente, che certo non guastava.

La “riserva” Superchi venne trasformato in portiere insuperabile.

La Fiorentina diventò “ye-ye”; una covata di giovani emergenti, guasconi, figli del loro tempo: Esposito, Chiarugi, Ferrante, Merlo.

Tuttavia l’avvio del campionato non fu subito esaltante.

Pochi gol e gioco latitante.

Una sconfitta fu medicina santa.

Alla quinta giornata una bruciante battuta d’arresto patita nel derby dell’Appennino contro il Bologna ebbe il merito di sbloccare la squadra.

Colpiti nell’orgoglio, la disfatta fece sì di oliare a dovere tutti i meccanismi.

Da quel giorno la maglia viola con l’iris che nasce sulle rive dell’Arno non conobbe più passo falso.

Alla ventunesima giornata con una vittoria sulla Lanerossi Vicenza per 3-0 grazie ad uno scatenato cavallo pazzo Chiarugi, i viola rimangono soli in testa e non verranno più raggiunti.

La Fiorentina diventò squadra stupenda, perfetta.

Franco Superchi non fece rimpiangere Albertosi. Agile, brillante reattivo.

Il terzino destro Bernardo Rogorà divenne un mastino che ti prendeva per non mollarti più.

A sinistra Eraldo Mancin da Porto Tolle, continuo, lineare senza sbavature.

Giuseppe Brizi lo stopper. Talmente pulito e corretto che qualcuno lo criticò perché pretendeva un centrale vecchia maniera, rude e cattivo.

Leggermente dietro di lui il libero Ugo Ferrante, insuperabile nel gioco aereo.

Il centrocampo si muoveva sotto gli ordini della trottola De Sisti. Lui dettava gli istanti e soffiava nei polmoni inesauribili del velocissimo Salvatore Esposito detto “Ciccillo”.

Poi Claudio Merlo romano come Picchio. Un ministro senza portafoglio, un trequartista geniale senza però il colpo di grazia.

E Amarlido non deluderà. Strepitoso, saettante, immarcabile.

Le sorti del torneo restarono comunque incerte fino alla fine in estenuante testa a testa con il Milan di Rivera e il Cagliari di Riva.

Solo alla penultima partita grazie a una perentoria vittoria per 2-0 a Torino con la Juventus i viola diventarono campioni d’Italia.

La squadra “baby” di Baglini aveva vinto la sua scommessa.

di Simone Galeotti.


MALDITOS PENALTIS

Morire sulla riva del fiume.

Nella retina l’immagine della rivoluzione fallita, l’epos delle notti prodigiose di primavera stroncate sul più bello.

La storia di un amore non corrisposto finito in venti minuti di follia.

Da adolescente, sei stato questo per me, Español.

Una sensazione strana quei giri d’orologio, il brivido che provi quando sai di fare qualcosa di sbagliato ma continui a farlo.

Perché ti piace quella cosa sbagliata, ti fa impazzire.

L’Español del 1988, come l'ultimo tiro della sigaretta di Javier Clemente, che invece di rovinare i polmoni rovinò i cuori.

Eppure Javier sei stato un talento di Euskal Herria.

Sfortunato e tenace, capace di intravedere nel tremendo infortunio che ti stroncò sul nascere una luminosa carriera in mezzo al campo, non una fine, ma l'inizio di una nuova e vincente stagione da allenatore, culminata con i trionfi con il tuo Athletic Bilbao, negli anni di grazia ottantatré e ottantaquattro.

Javier Clemente, el rubio de Barakaldo, periferia industriale di Bilbao.

L’ uomo che scolpiva le sue squadre nel metallo come Eduardo Chillida forgiava le sue sculture, lasciando poi che sia il vento e la pioggia a fare il resto.

Che cosa successe quella sera lassù in Germania? nell’asettica Leverkusen, che odorava di aspirina e di schiume di scarico sugli argini del Reno.

Sembrava fatta. Un gioco da ragazzi..

Un po’ come per gioco nacque un giorno d’ottobre del 1900 questa squadra, per merito di Octavi Aballí, Lluís Roca e Àngel Rodríguez Rui, tre studenti di ingegneria dell'Università di Barcellona, entusiasti di creare un club sportivo che assunse il nome di Club Español de Football.

Figlio di un Dio minore, soffocato per sempre dal “Més que un club”, lo slogan dei “despoti” i vicini di casa, lassù in Avinguda Diagonal, insolenti vicini, al respiro indimenticabile dello stadio Sarrià.

Avevi impallinato le grandi d’Europa, tanto che qualcuno in giro per le Ramblas o per il Passeig de Gràcia incominciò a dire:

“Lo mejor de Barcelona, es ser del Espanyol” (Il meglio di Barcellona è essere dell’Español.)

E nacque la favola dei “Matagigantes” che avevano eliminato Milan e Inter a stretto giro di boa.

La lotta e lo spirito degli umili erano stati premiati.

La finale della Coppa UEFA in due atti come registrato copione imponeva, incominciò il 4 maggio 1988.

E l’Euro- fiesta sembrò non finire.

L’Español davanti a 45000 anime traboccanti si scatenò. Una furibonda corrida dove i tedeschi non ebbero scampo sommersi dall’epica, dalla doppietta di Sebastian Losada detto “El Pipiolo” e dal centro di Miguel Soler.

"Espanyol, Espanyol, Espanyol” nessuno voleva uscire dallo stadio.

Il 3-0 valeva un cuscino su cui N'Kono, Orejuela, Gallart, Valverde e compagnia biancoblu potevano poggiare la testa e dormire sonni tranquilli giacché nessun nibelungo avrebbe potuto rovesciare il tavolo della festa, già carico di Paella, tortilla de patatas e crema catalana.

E in Germania tutto faceva propendere al meglio. Dopo i primi 45 minuti le speranze per i padroni di casa si affievoliranno ulteriormente, dato che il risultato restò ancorato sullo 0-0.

Ma al rientro in campo, il Bayer andò all’assalto. I farmacisti che non t’aspetti.

Clemente chiuse la squadra in difesa, si intestardì di non prenderle.

Mai avrebbe pensato a una rimonta avversaria.

Cercò di contenere le folate, ma in breve esaurì le sigarette e le speranze.

Una scelta che si rivelerà fatale.

Al 57° un indecisione difensiva aprì la crepa. Il brasiliano Tita suonò la carica con un goal di rapina, seguito cinque minuti dopo dal raddoppio di Falko Goetz.

La partita era ufficialmente riaperta, mancava solo un gol per impattare la differenza, e il Bayer sembrava averne di più.

E come volevasi dimostrare, al minuto 81 il coreano Cha Bum Kun anticipò Urquiaga, incornando un cross proveniente da un calcio di punizione e completa la rimonta.

Quello che nessuno si aspettava alla vigilia, era accaduto.

Intanto si andò ai supplementari.

Qui il Bayer parve placare il suo impeto, l’Español frastornato da quanto accaduto, non fu capace di organizzarsi e come conseguenza arrivarono i calci di rigore.

Il Bayer con Ralf Falkenmayer fallì il suo primo penalty, e Pichi Alonso riportò i suoi nuovamente avanti.

Andò a segno anche il terzino Josè Guerra, ma di lì a poco in bestiale sequenza arrivarono ben tre errori consecutivi degli uomini di Clemente: Santiago Urquiaga, Manuel Zúñiga, Sebastián Losada..

I tedeschi invece non sbaglieranno più un colpo.

Il portiere Thomas N’Kono fusto d’ebano del Camerun restò in ginocchio. La beffa era ormai completa.

La coppa arrivata a Leverkusen per farci solo scalo ci resterà per sempre.

E la sconfitta più inspiegabile nella storia del Real Club Deportivo Español diventerà pianto e rimorso.

di Simone Galeotti.


HIC SUNT LEONES

E’ nata prima la birra o il boccale?

A Monaco di Baviera è nato sicuramente prima il TSV 1860 München.

Il figlio maggiore di genesi masochista. Quello splendido, ma poi ripudiato dal tempo che lo ha riempito di rughe e sconfitte, lasciando spazio e gloria alla seconda prole, rossa, vincente, ricca.

“ Papà, quando è stata l’ultima volta in cui il Monaco 1860 ha vinto il derby? ”

“ Non so figliolo, dovresti chiedere al nonno! ”

Umorismo tedesco.

Magari non il massimo della commedia, ma questa freddura a Monaco di Baviera è circolata per molti anni tra i tifosi del Bayern.

Per la precisione, il digiuno è durato dal 12 novembre del 1977 al 27 novembre del 1999, esattamente ventidue anni di sofferenza sportiva interrotti dalla bordata di Thomas Riedl all’Olympiastadion di Monaco.

Una vittoria che coincise con l’ultimo colpo di coda del club, ovvero quando il quarto posto nella stagione 1999/00 in Bundesliga, raggiunto grazie ai lampi di classe di un ispirato Thomas Hassler a fine carriera, valse la prima e finora unica qualificazione nella moderna Champions League.

Eppure.

Eppure nei giorni della partita di campionato, a Marienplatz, nel cuore della città, si vedono solo maglie blu e celesti, indossate con composta fierezza da quei sostenitori che per tutta la settimana sembra restino nascosti nelle loro stanzette, soli, eclissati in un limbo di antichi ricordi, per non essere umiliati e accecati dallo strapotere e dai luccichii dell’altro club.

Fanno perfino tenerezza.

Invadono la metro che li porta al capolinea della U3.

Un fiume di sciarpe e maglie con i colori dei Leoni.

Perché loro sono Die Löwen.

Non hanno più il loro amato vecchio Grunwalder stadion.

Adesso condividono casa con loro.

Una gran bella casa per la verità, dove per lo meno le birrerie sono diverse.

Ognuno ha la loro, e dentro quella del Monaco 1860, i cori e le urla contro i cugini si sprecano.

Qui si può bere, non è vietato.

Come si può facilmente dedurre, il Monaco 1860 deve il nome all’anno della propria fondazione, anche se all’epoca non era ancora altro che una polisportiva di ginnastica e atletica.

Per l’avvento del calcio si sarebbero dovuti aspettare una quarantina d’anni, precisamente il 1899.

Poi, solo un anno dopo, da un gruppetto di diciotto dissidenti della società di ginnastica Münchner TurnVerein avrebbero visto la luce gli odiati vicini.

C’è un epoca d’oro nella storia del Monaco 1860.

Comincerà negli anni sessanta e durerà per tutto quel decennio, sotto la guida dell’allenatore austriaco Max Merkel, musico dedito al calcio arrivato dopo qualche buon risultato sulla panchina del Borussia Dortmund.

Il pentagramma ebbe poche sbavature d’inchiostro e la sua orchestra in campo suonò fino a diventare Campione di Germania nel 1966 passando una notte da protagonista a Wembley seppure fagocitato dalla bulimia dei martelli di Bobby Moore.

Tuttavia il boccone per lo West Ham apparve più duro del previsto, e solo a venti minuti dal termine una doppietta di Alan Selay decise la sfida davanti ai centomila accorsi nel grande stadio londinese.

Il Monaco 1860 era pervenuto alla finale di Coppa delle Coppe del 19 maggio 1965 dopo una durissima sfida in semifinale contro il Torino di Gigi Meroni, risolta addirittura con uno spareggio il 5 maggio 1965 al Letziground di Zurigo dove i bavaresi si imporranno definitivamente per 2-0.

Una squadra bella e forse anche un po’ stramba quella dei “Die Sechzger”.

Il portiere era uno iugoslavo, tale Petar Radenkovic, uno dei personaggi sicuramente più colorati che hanno calcato le scene del calcio tedesco.

Registrò anche un disco ('Bin i Radi, bin i König') meravigliando le folle ben oltre le linee della sua area di rigore.

Il capitano Rudolf Brunnenmeier era sulla buona strada per diventare capocannoniere della Bundesliga in quella stagione.

E non solo lui emergeva dal gruppo di Merkel.

C’era Hans Küppers, elemento dalle grandi doti tecniche con annesso tiro incisivo; in mezzo al campo Peter Grosser, a fornire idee geniali, e va speso sicuramente il nome di Hans Heiss Rebele un robusto centravanti di manovra dal sorriso tagliente.

Tuttavia dopo la vittoria della Bundesliga nel 1966 la fortuna volgerà presto le spalle a quelli del 1860.

Alla fine del 1969 il bilancio societario cominciò a presentare le prime crepe, con un’esposizione debitoria di oltre due milioni di marchi. E come una tegola, nel 1970 si abbatte anche l’onta della retrocessione nella seconda divisione del campionato tedesco, con una conseguente emorragia di pubblico e di incassi.

Gli anni settanta erano stati un periodo di difficoltà finanziarie per tutto il calcio tedesco, e persino il cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt era dovuto intercedere presso le banche per salvare dalla bancarotta l’Amburgo, la sua squadra del cuore.

E il peggio doveva ancora venire, visto che dopo il derby vinto nel 1977, il Monaco 1860 è costretto a ripartire addirittura dai campionati regionali.

L' ombra del fallimento venne spazzata via dall’avvento di Karl Heinz Wildmoser, ambiziosissimo presidente, che riporterà la più antica squadra di Monaco in Bundesliga, e, come detto, al tramonto degli anni novanta a rompere l’ultraventennale digiuno nei derby, respirarando addirittura aria di Champions League a trentatré anni dall'ultimo titolo.

Ma la storia del Monaco 1860 presenta qualcosa di strano.

Ciò che per tutti, all’alba del nuovo millennio è fonte di enormi guadagni, per i leoni di Baviera diventa paradossalmente la causa della rovina.

Ovvero, la costruzione dello stadio di proprietà, l’Allianz Arena, l'impianto che per i cugini del Bayern, con il loro indotto e i loro centocinquantamila soci, è un investimento verso il futuro, mentre per il piccolo Monaco 1860 è un salto finanziario nel buio.

E Wildmoser, nel frattempo affiancato dal figlio, si ritrovò sommerso dai debiti.

Nel 2004 il club tentò addirittura a tornare a giocare nel catino dello storico Grundwalder Stadion, per la gioia dei tifosi, ma il passo indietro non fece altro che complicare la già precaria situazione.

L’Allianz Arena non poteva essere abbandonata, ma i debiti ed i costi di gestione rischiano di schiacciare il club.

Il secondo fallimento della storia fu evitato da uno sceicco giordano, tale Hasan Abdullah Ismaik, che non assomigliava affatto a Lawrence d’Arabia ma entrò a Monaco subito col piede di guerra perché la legge tedesca gli vietava di possedere, in quanto socio estero, il 51% del club.

Un personaggio non amatissimo dalla tifoseria, la quale spesso ha espresso dissenso verso il suo arrivo.

In ogni caso il Monaco 1860 langue, attendendo ancora di tornare a ruggire sul serio.

Unica certezza un boccale di birra.

di Simone Galeotti.




LA BALLATA DEI BLAUW EN ZWART

Di quell’Achille viennese, di nome Ernst Happel, grintoso, energico, prestante, che da giocatore batteva i rigori senza prendere la rincorsa, e che girò l’Europa con il suo tempo di valzer, immortalato da artisti fiamminghi nella sua ballata di Bruges, quando per un soffio, per una contingenza di avversità, non riuscì a poggiare in mezzo ai quadri di Van Eyck e Petrus Christus, la Coppa dei Campioni, il trofeo dalle grandi orecchie che preferì inconsciamente i docks di Liverpool ai pinnacoli romantici e suggestivi di Grote Markt. Il Bruges di Happel resta fiaba dai volti acerbi e bellissimi, stesi a olio sulla tela verde del campo. Perché nel blasone dei condottieri carichi di onori, vittorie e riconoscimenti, Happel e il suo Bruges occupano l’altra colonna, quella degli sconfitti, degli uomini forse da dimenticare, che non sarebbero mai dovuti nascere per non essere battuti. La storia è così, anche nel calcio: scritta dai vincitori, dimentica i vinti, coperti di discredito. Ma la vera vicenda è scritta anche dai perdenti, che in molti casi con le loro sconfitte, spesso ingiuste, hanno insegnato molto più ai loro contemporanei, e naturalmente anche ai posteri, di quanto non lo abbiano fatto tanti vincitori. Nel 1973 lo stadio Jan Breydel (che allora si chiamava Olympia Park), situato a ovest del centro cittadino dove il gotico si evolve in sintesi di periferia popolare, vede terminare l’era di Leo Canjels soprannominato “Het Kanon”, e incomincia a scorgere trame di assoluta novità stilistica.

Happel è un maniaco della preparazione fisica. Più volte sveglierà i suoi ragazzi a orari da stretto pendolarismo operaio, per sedute improvvise di allenamento come quella volta prima di prendere un aereo per Roma per un incontro di Coppa. Ernst è un innovatore, un precursore del calcio totale, un gestore degli afrori di spogliatoio. Qualcuno dei suoi più o meno affettuosamente lo chiamerà il “profeta” dei quattro comandamenti «correre, correre, correre, e disciplina». In sostanza da buon viennese, aveva capito fin da quando era calciatore, che le squadre per vincere devono essere vere e proprie orchestre, capace di muoversi in perfetta sintonia senza che nessuno errasse i tempi di battuta. E le sue filarmoniche, esprimevano un gioco velocissimo per quei tempi, terribilmente aggressivo, magari non bellissimo da vedere come era quello dell’Ajax, tuttavia cinico e pratico. Nel 1976 conquistò il titolo nazionale e contemporaneamente la finale di Uefa, persa contro il fortissimo Liverpool. Ed eccola la bestia nera, anzi rossa, il prodromo della paura, che negherà ogni gioia continentale ai fiamminghi.

La stagione successiva vedrà ancora un successo in campionato, nondimeno il Bruges non si accontentò e vincerà anche la coppa del Belgio, centrando un invidiabile doppietta. Nei “Blauw en Zwart” emergono figure decisive come il portiere danese Birger Jensen, il terzino Fons Bastijns, il centrale austriaco Eduard Krieger, il mediano Julien Cools, il terribile regista mancino Renè Vandereycken, il rifinitore Paul Courant e un centravanti dalle splendide doti atletiche, che si trovava a perfetto agio nella gabbia foriera di gloria dell’area di rigore: il bomber Raul Lambert. Accanto lui per regalarsi il terzo titolo consecutivo nel 1978, ecco il danese Jan Sorensen, noto rompiscatole di difensori avversari, voluto fortemente dal tecnico austriaco che lo prelevò dal Frem di Copenaghen. Un tipo da far venire i brividi per il modo con cui dribblava, calciava e si muoveva. In quella stagione il Bruges sponsorizzato in campionato “49 R jeans”, galoppò, in questo secondo caso senza pubblicità sulle maglie per le normative europee (come cambiano i tempi perbacco...), verso Wembley a giocarsi la finale della Coppa dei Campioni. E lo farà con grande carattere. Solo l’anno prima aveva sfiorato l’impresa sui vicecampioni del ‘Glandbach. E' un calcio freddo, ragionato, quello del “Club Brugge”, fra recuperi, polmoni a stantuffo di valenti portatori d’acqua, e estrose prodezze di giocatori di classe.

La loro, è stata davvero una cavalcata fino a Londra.

Eliminati facilmente KuPS e Panathinaikos, i belgi faranno fuori l’Atletico Madrid. Una faticaccia impensabile dopo il 2-0 raccolto fra le mura amiche. In Spagna alla scadere della prima mezz’ora sono sotto 2-0 ed il conto a distanza era nuovamente in parità. Poi, al 60′esimo Cools segnerà un 2-1 pesantissimo, che costrinse i “Colchoneros” a dover segnare ben due reti per agguantare la qualificazione. Una la troveranno subito, e allora come in un giallo di Georges Simenon la “verità” restò in bilico, ancora per altre cinque pagine, cinque minuti: il tempo che Lambert depositi in rete la palla del 3-2, che non salvò il Bruges dalla sconfitta, ma che valse la semifinale contro la Juventus. La squadra italiana si presentò da netta favorita e sognando di approdare alla sua seconda finale di Coppa Campioni. Al Comunale di Torino a quattro minuti dalla fine segnò Bettega e finirà 1-0 per i bianconeri. A Bruges, Bastijns ci mise invece solo tre giri d’orologio per pareggiare il conto delle marcature. Si andrà ai supplementari e qui, quando cominciò a profilarsi all’orizzonte lo spettro dei rigori, al 116′esimo arrivò il centro decisivo del rapace Vandereycken. Finirà 2-0. Due contropiedi da manuale, ben 25 i fuorigioco cercati e trovati dall'altissima linea difensiva dei belgi. Giovanni Trapattoni, tecnico dalla Juve, si recò in conferenza stampa pallido come uno strofinaccio affermando:

“Sono senza parole, non ho mai visto niente del genere!”.

Mentre intanto Ernst Happel visibilmente soddisfatto, seduto in spogliatoio sorseggiava un bicchiere di cognac, e fuori, trentamila persone scandivano il suo nome.

A Wembley.

E così il fiorente centro medievale delle Fiandre occidentali famoso per la produzione di merletti e tessuti, intersecato da numerosi canali che sfociano nel Mare del Nord se andò con sua squadra a Londra alla difficile ricerca di quel Graal che avrebbe potuto cambiare la storia del Club. In tantissimi arrivarono nella capitale inglese dal Belgio, e ogni tanto tremava nell'aria uno stendardo fiammingo, ma sono pochi, troppo pochi, nel mare rosso dei novantamila calati da Liverpool e da ogni parte d’Inghilterra per sostenere la squadra già leggendaria di Bob Paisley.

Il 12 maggio del 1978 era una serata perfetta a Londra, con il cielo sereno, e la temperatura primaverile. Nelle orecchie, sputati dagli altoparlanti, i Bee Gees, i Genesis, e Kate Bush. Il Liverpool in rosso, il Bruges in bianco, in un contrasto cromatico che rese grazie al Dio al calcio. Il primo tempo terminò a reti inviolate con un Liverpool senza la solita “verve” ed incisività di gioco, ed un Bruges impegnato, anche a causa di assenze pesanti, come quella del faro Lambert e del perno difensivo Jos Volders, per lo più in un lavoro di contenimento. Nella ripresa il Liverpool sostituirà Jimmy Case con Steve Heighway. L'intenzione era chiara. Per cercare di forzare il risultato, gli inglesi infittirono la linea d'attacco. Fu una decisione che verrà subito coronata dal successo. Al termine di un azione iniziata da Souness e sviluppata da McDermott, il folletto Dalglish sorprese Jensen con un pallonetto basso nell'angolo opposto della porta e impazzito di gioia saltò correndo verso i suoi tifosi. Il Bruges deluso e arrabbiato non mollò. Al 35'esimo mancò per un soffio il pareggio. Con un disperato intervento sulla linea di porta, Thompson riuscì a deviare un tiro rasoterra di Sorensen quando Clemence pareva ormai già battuto. Il Bruges perse, e nonostante le illustri mancanze, e il fatto di giocare praticamente fuori casa, giocò probabilmente, anzi, meglio dei reds.

Insomma l’abbiamo detto, il calcio è un mondo abbastanza strano, forse troppo strano. E' riconoscente con alcuni, meno con altri, e tra quelli c'è sempre chi avrebbe meritato più celebrità. Un po’ come il Bruges del signor Happel.

di Simone Galeotti.