Tutto stava tornando come prima.
O quasi.
Difficile riprendersi dopo che 250 milioni di metri cubi d’acqua
avevano corso lungo le tue strade e un mare di fango aveva travolto
tutto, case, botteghe, monumenti.
Il Crocifisso del Cimabue in
Santa Croce rovinato per sempre. Le formelle di Lorenzo Ghiberti divelte
dalle porte dell’Battistero. Antichi volumi e manoscritti risucchiati e
perduti.
Arriveranno da ogni parte d’Italia, gli angeli del fango.
I fiorentini recuperarono il recuperabile.
L’ironia, non l’avevano mai perduta, nemmeno durante i momenti peggiori
dell’alluvione di quella maledetta notte del primo novembre 1966.
La stessa ironia che sembrò animare l’allenatore della Viola Bruno
Pesaola detto “El Petisso” quando al termine di un amichevole estiva nel
1968 contro gli svizzeri del Grasshoppers sentenziò davanti ai taccuini
la frase fatale:
“Signori, ho capito una cosa, se con questa squadra noi non vinciamo lo scudetto divento frate”.
Ecco un altro bischero.
Fu questo il pensiero più o meno sottaciuto della città, che già lo
vedeva in saio aggirarsi intorno alla parrocchia di Piazza Savonarola.
Il lavoro del direttore sportivo Nello Baglini che aveva rilevato una
Fiorentina con un passivo di 800 milioni, partì in profondità.
Per far capire l’importanza che lui dava ai sacrifici e alla necessità
di un attento impiego dei soldi ricordava che quando lui era ragazzo in
casa sua il vino lo beveva solo il padre e soltanto la domenica. E
ricordava anche che lui non era un mecenate.
Che lo chiamassero pure il Martin Lutero del calcio.
Gli idoli della folla partirono, primo su tutti Kurt Hamrin, ma con lui
anche i giovani allevati sui lungarni come il portiere Enrico
Albertosi, la mezzapunta Mario Brugnera, andati ambedue al Cagliari, e
l’energico mediano Mario Bertini ceduto all’Inter. In compenso il
presidente non mancò di investire, scegliendo un ragazzo generoso,
leale, geometrico, soprannominato “Picchio”, il centrocampista romano
Giancarlo De Sisti che già aveva illuminato con la sua classe i cieli
dell’Urbe.
Pesaola non era così ingenuo come in un primo momento si pensò. Il suo primo successo non fu in campo ma fuori.
Il “Petisso” riuscì a placare il bizzoso attaccante Amarildo ritiratosi
nel suo Aventino brasiliano. Pesaola lo riportò a Firenze con ampie
garanzie di essere il faro della squadra, briglie allentate sul collo e
alla fine qualche lira in più sul conto corrente, che certo non
guastava.
La “riserva” Superchi venne trasformato in portiere insuperabile.
La Fiorentina diventò “ye-ye”; una covata di giovani emergenti,
guasconi, figli del loro tempo: Esposito, Chiarugi, Ferrante, Merlo.
Tuttavia l’avvio del campionato non fu subito esaltante.
Pochi gol e gioco latitante.
Una sconfitta fu medicina santa.
Alla quinta giornata una bruciante battuta d’arresto patita nel derby
dell’Appennino contro il Bologna ebbe il merito di sbloccare la squadra.
Colpiti nell’orgoglio, la disfatta fece sì di oliare a dovere tutti i meccanismi.
Da quel giorno la maglia viola con l’iris che nasce sulle rive dell’Arno non conobbe più passo falso.
Alla ventunesima giornata con una vittoria sulla Lanerossi Vicenza per
3-0 grazie ad uno scatenato cavallo pazzo Chiarugi, i viola rimangono
soli in testa e non verranno più raggiunti.
La Fiorentina diventò squadra stupenda, perfetta.
Franco Superchi non fece rimpiangere Albertosi. Agile, brillante reattivo.
Il terzino destro Bernardo Rogorà divenne un mastino che ti prendeva per non mollarti più.
A sinistra Eraldo Mancin da Porto Tolle, continuo, lineare senza sbavature.
Giuseppe Brizi lo stopper. Talmente pulito e corretto che qualcuno lo
criticò perché pretendeva un centrale vecchia maniera, rude e cattivo.
Leggermente dietro di lui il libero Ugo Ferrante, insuperabile nel gioco aereo.
Il centrocampo si muoveva sotto gli ordini della trottola De Sisti. Lui
dettava gli istanti e soffiava nei polmoni inesauribili del velocissimo
Salvatore Esposito detto “Ciccillo”.
Poi Claudio Merlo romano come Picchio. Un ministro senza portafoglio, un trequartista geniale senza però il colpo di grazia.
E Amarlido non deluderà. Strepitoso, saettante, immarcabile.
Le sorti del torneo restarono comunque incerte fino alla fine in
estenuante testa a testa con il Milan di Rivera e il Cagliari di Riva.
Solo alla penultima partita grazie a una perentoria vittoria per 2-0 a
Torino con la Juventus i viola diventarono campioni d’Italia.
La squadra “baby” di Baglini aveva vinto la sua scommessa.
di Simone Galeotti.
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