A Calais c’è il mare in burrasca.
Oggi non si vedono biancheggiare all’orizzonte le bianche scogliere di Dover.
Volti familiari sferzati dal vento sfiancante, si fondono con quelli di
sconosciuti in attesa che quel maledetto specchio di mare distante
appena trenta chilometri dall’Inghilterra si calmi e riparta il primo
traghetto.
Dovunque un livido d’umidità mista a salsedine,
odoraccio d’oceano, e i soliti gabbiani famelici che si attardano come
enormi equilibristi su pescherecci sballottati dalle onde.
Calais è un porto di mare nel vero senso del termine. E’ un po' come
lasciare la porta di casa aperta con gente che ti entra dentro per
prendere un bicchiere d'acqua, e magari va pure in bagno uscendo senza
salutare.
I cittadini di Calais appaiono entità invisibili per chi passa di qua.
Ma oggi, finalmente, c’è qualcosa di nuovo, a parte il mare mosso.
Oggi.
Ladislaz Lozano, cinquantenne impiegato comunale d’origini spagnole
sfuggito al regime di Franco, è allenatore di calcio per diletto. E’
uscito un momento dal locale per fare due passi sul lungomare da solo
nonostante il tempaccio.
L’enorme spiaggia è vuota. Deve respirare e rimettere in ordine i pensieri.
Da poco si è ripreso da un malore causato da eccessivi festeggiamenti, e
in ospedale ha ricevuto nientemeno che un telegramma dal Presidente
francese Jacques Chirac, che gli augurava ogni bene e gli dava
appuntamento a Parigi.
Il motivo? L’aveva combinata grossa.
Lo dice la foto di quella pagina de L'Équipe portata dalle raffiche,
che si avvinghia per un attimo indefinito a uno dei pali di legno
impregnati di smalto, che sorreggono la “Friterie”..
Il suo
Calais ha conquistato la finale della Coppa di Francia battendo a Lens
il Bordeaux. E i suoi giocatori ora nella tuta d’ordinanza giallorossa
sono a pochi passi da lui a mangiare pesce e mele fritte come hanno
fatto tutta la vita, perchè anche adesso che l’intero paese li aveva
visti in televisione restano fedeli alla loro ritualità.
La classe operaia va in Paradiso, ma vuole farlo secondo il suo stile.
Da dilettanti della pedata.
Si è vero, c’erano stati autografi, interviste, delle foto con qualche
bella donna, ma in fondo eccoli lì, schietti e un pò ingenui, seduti a
scherzare, una combriccola di bravi ragazzi.
Un paio di agenti
di commercio, un magazziniere, qualche impiegato, un giardiniere, due
insegnanti, un imbianchino, un pasticciere, uno studente universitario,
un responsabile di campeggio, un parrucchiere, un educatore e
l’animatore di un centro sociale.
Mon Dieu.
Come
hanno fatto? Come hanno potuto? Chi ha permesso che nell’era del calcio
che fa rima con business all’alba del nuovo secolo, questa manica di
onesti cittadini prendesse in giro il sistema, i soldi, gli interessi
milionari dei club della massima divisione?
Lozano rientra,
chiudendosi alla spalle il grigio della Manica, e subito partì
l’ennesimo brindisi, l’ennesimo applauso. A capotavola l’unico con due
franchi in più in tasca: Jean Marc Puissesseau proprietario e presidente
della squadra fondata nel 1902. Questo pazzo, pazzo, Calais Racing
Union FC.
Che sia stata tutta colpa del temutissimo Millennium Bug? In fondo è il maggio del 2000.
Bah.
Riprendiamo.
Favola, sogno, copione cinematografico a basso costo. Gente comune che
ha vissuto un’esperienza indimenticabile e che dopo la finale è tornata
alla sua vita, agli stessi amici, allo stesso impiego.
Giusto, evviva la retorica. Condiamola con l’immedesimazione e il gioco è fatto.
Tuttavia non è così semplice calarsi nella testa di quei giovanotti che
nel giro di qualche mese hanno scritto una pagina indelebile di calcio.
Una storia corale attraverso una gamma di colori e sfumature varie.
Tutto potrebbe incominciare dall’epilogo. Da quel tabellone del
nuovissimo e stracolmo Saint Denis di Parigi che alla fine del primo
tempo della finalissima diceva Calais 1 Nantes 0, gol di Jérôme Dutitre
al minuto trentaquattro.
Jérôme che lavorava in Comune a
Calais, 80000 persone allo sportello non se l’era mai ritrovate tutte in
fila e sinceramente è un bene. Quando infilò il pallone alle spalle di
Landreau con un sinistro ignorante e basso, la sua esplosione di gioia
nel boato è una vertigine senza fondo.
“Alla lunga cederanno”, era l'anatema. Quello che pensavano tutti.
Invece il Calais continuo' a eliminare gli avversari, turno dopo turno.
Negli ottavi occorse andare a giocare a Lens. Troppo piccolo ovviamente
il Julien Denis, e troppo modesto anche l’impianto della vicina
Boulogne per ospitare il Cannes, squadra cadetta piegata ai calci di
rigore. La gioia per aver raggiunto i quarti di finale fu doppia, quando
il Calais dovette affrontare una squadra di Ligue 1. Pescarono lo
Strasburgo, offrendo una gara splendida, conclusa strepitosamente 2-1,
dove si placò anche la sete di vendetta dello stesso Dutitre, smarritosi
per responsabilità non accertate proprio nelle giovanili del Racing
Club.
Fine dei rimorsi. Si aprirono le porte della semifinale.
E qui contro il Bordeaux avviene un altro miracolo. Il Calais dovette
far ricorso a tutte le sue armi fisiche e mentali, gettando
letteralmente il cuore oltre l'ostacolo.
Dopo che i 90'
regolari si erano chiusi sull'1-1, nell’appendice dei supplementari,
sfiniti e con i crampi, i giocatori del Calais riuscirono a segnare due
reti nei minuti finali a cavallo del 120esimo. Finì 3-1 con sugli scudi
Mathieu Millien, un piccoletto leggermente stempiato, nativo di Calais
dove insegnava alle scuole elementari.
Roba da matti.
Riecco Parigi e i giallorossi della costa in vantaggio a metà gara.
Il portiere e bandiera Cédric Schille, cresciuto nel prestigioso Metz
ma giunto a Calais con i sogni di gloria calcistica messi
anticipatamente in un cassetto, vede dietro l’angolo la sua rivincita
personale.
Il capitano difensore Réginald Becque, occupato in un azienda di scaffalature saprebbe già dove poggiare la copia del trofeo.
Mickaël Gérard magazziniere si vede già festante, issato dai colleghi in alto sul suo carrello elevatore giallo.
Il Calais stava giocando la partita perfetta per una squadra del suo
genere. Non solo aveva contenuto gli avversari. Era clamorosamente in
vantaggio. Ma quel clamoroso ormai era termine fin troppo abusato.
E gli altri? ma si ci stiamo dimenticando degli altri. Del Nantes.
I “canarini” avevano sconfitto in semifinale i campioni di Francia in
carica, mostrando una compattezza ed una resistenza fisica
impressionanti.
La favola se vogliamo non è a lieto fine.
A quattro minuti dall’inizio del secondo tempo, arrivò il pari del
Nantes: a siglarlo è Sibierski, giovane promessa mai mantenuta del
calcio transalpino.
E poi, quando ormai tutto sembrava
convergere verso l’agonia dei tempi supplementari, ecco che Alain
Caveglia si involò verso la porta del Calais, e il giovane Fabrice Baron
gli si oppose troppo energicamente. L’esperienza, cioè quella cosa che
capisci di possedere nell’ esatto istante in cui commetti un errore,
indusse l’arbitro, Claude Colombo a indicare il dischetto.
Un
calcio di rigore stregato e in pieno recupero. Il portiere Schille, non
si darà mai pace per quell’episodio che a distanza di anni durante la
notte, tornerà a visitarlo nei brutti sogni.
L’arbitro fu irremovibile.
Sibierski si occupò della trasformazione. Non era più tempo di
miracoli, il pallone venne solo sfiorato dall’estremo difensore che
batté con violenza i pugni nell’erba umida del grande stadio parigino.
La coppa se la presero i professionisti.
Eppure, nonostante il Nantes vinse quella Coppa, fu il Calais il vincitore morale della sfida.
L’intero stadio tributò loro un lungo applauso, ed il capitano e
portiere del Nantes, Mickaël Landreau, decise di alzare la Coppa insieme
a Becque, il capitano dei piccoli dilettanti che avevano fatto
innamorare la Francia.
di Simone Galeotti
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