lunedì 15 aprile 2013

Un tempo fratelli

Quasi 22 anni fa. Fu allora, in quel fine giugno del 1991, che uscì da un campo di basket l'ultima Jugoslavia conosciuta.
Accadde a Roma, campionati Europei: naturalmente vinti. Timida finalista, l' Italia non mise becco, anche se almeno, all' epoca, disputava finali.
Magnifica tra i canestri, la Jugoslavia iniziava a fracassarsi dentro i crepacci della sua storia. E proprio durante quegli Europei, quando l' esercito federale attaccò la piccola Slovenia, partì il primo smottamento.
Nel ritiro della nazionale, prima della semifinale, arrivò un fax da Lubiana. Jure Zdovc, guardia titolare e unico sloveno del gruppo, doveva svestire subito la maglia del paese che stava cannoneggiando la sua gente.
Tirarono avanti gli altri, serbi e croati, bosniaci e montenegrini, già presaghi delle prossime diaspore.
Ai Giochi di Barcellona ' 92 si vide solo la Croazia: seconda, dietro il Dream Team americano.
Sanzionata con l' embargo per i crimini di guerra, la Serbia riapparve agli Europei di Atene ' 95, dove le due nazionali nemiche non riuscirono a condividere neppure il podio: primi i serbi, terzi i croati, questi ultimi ne scesero agli inni, sfilando via allineati, in una protesta cupa e muta.
Dai fratelli separati li divisero pure le cene fredde, consumate in un' ultima notte rinserrata nelle stanze dell' hotel.
«Vent' anni fa», avvia il suo racconto il vocione rauco di Vlade Divac, mentre guida in una Zagabria brumosa e invernale. Non l' aveva più rivista dall' estate dell' 89: un' altra medaglia d' oro, tanto per cambiare, gli Europei vinti in casa.
Ora 42 enne, quello che scivola sulle strade dell' ex Jugoslavia è un ex pure lui. Ex pivot dei plavi, gli azzurri della nazionale. Ed ex pivot dei Lakers, adorato da Magic Johnson.
Guida, l' omone stempiato e appesantito, braccando ombre del passato. Troverà una tomba su cui lasciare una foto: l' abbraccio di due giganti giovani e forti. Uno è lui, l' altro Drazen Petrovic. Quello sepolto lì.
Once brothers, si chiama la storia, diventata film. «Un tempo fratelli». E poi non più. Cresciuti insieme, fra sogni e trionfi. Capaci poi, giocandosi contro nella Nba, uno ai Lakers e uno ai Blazers e poi ai Nets, di non scambiarsi una parola, anche sbattendosi addosso. E perché mai? Perché Vlade è serbo e Drazen croato.
Li ha divisi la guerra, per un pezzo. E la morte, poi, per sempre. Drazen Petrovic, il Mozart del basket, tant' era sinfonico e genialmente unico il suo gioco, si schianta nel ' 93 su un' autostrada tedesca: a 29 anni, dentro una Golf guidata dalla fidanzata Klara, in una sera di diluvio.
Lascia in tutti rimpianti e in Vlade rimorsi, fino a questo viaggio che, vent' anni dopo, somiglia a un' espiazione, risalita la corrente dei pensieri in un paese che fu.
Scende dall' auto, suona a un campanello, porge un mazzetto di fiori a una signora distinta, avvolge in un abbraccio un altro vecchio ragazzo: la mamma di Drazen e suo fratello maggiore, Aza, cestista pure lui.
Cliccatissimo in più frammenti su Youtube, il film, prodotto dalla Nba e trasmesso dalla Espn, rievoca la storia di una squadra tra le più belle dello sport mondiale, intrecciandone vita agonistica e dannazione storica. E' la guerra civile a spaccarla, non gli avversari. «Io, Drazen, Toni, Dino, Stojko, Zarko, Zoran...».
L' indice solca le foto in bianco e nero, toccando Petrovic, Kukoc, Radja, Vrankovic, Paspalj, Savic. Alla generazione di fenomeni già sbocciano accanto gli implumi Djordjevic, Danilovic, Komazec, Rebraca.
Il salotto dei Petrovic s' imbeve d' emozione. «Ero in vacanza alle Hawaii racconta Divac -, sentii le news. Uno choc». Drazen morto: Denkendorf, 7 giugno ' 93. In auto per caso.
Per salire e scendere, quella volta il destino usò una scala mobile. Aeroporto di Francoforte, la nazionale croata s' avvia al volo per Zagabria, ma appare Klara, trafelata per il ritardo, incrocia Drazen, se ne vanno insieme.
L' ultima corsa, addosso a un camion uscito di corsia. Andò a riconoscere la salma Neven Spahjia, amico d' infanzia a Sebenico, oggi bravo allenatore. Raccontò poi d' avergli trovato in tasca un foglietto. Tre nomi di squadre, tre cifre: le offerte di Knicks e Nets nella Nba, e del Panathinaikos Atene. Forse, Drazen sarebbe tornato in Europa. Ci tornò per un funerale che fermò la sua piccola patria, trasmesso in diretta dalla tv croata.
E per aspettare, tanto tempo dopo, in questo paesaggio d' ombre e di neve, l' amico perduto. Ma quando?
Buenos Aires, Mondiali ' 90.
Scorre sul video una scena ormai solita. Hanno vinto ancora, i giganti slavi. Campioni del mondo. E saltano felici e abbracciati, quando irrompe nel crocchio un tifoso, agitando una bandiera croata. Divac la butta via. «Siamo Jugoslavia, non Serbia o Croazia», spiegherà poi inutilmente nelle divampanti polemiche del rientro. «Alcuni capirono, Drazen no. Da allora, con lui qualcosa era cambiato».
Senza parole, di lì in poi.
Muti e lontani i due che a Rogla, il ritirocaserma sulle alpi slovene dove nascevano le vittorie, dividevano la camera, «e io tenevo lontane le ragazze, quante ne venivano per Drazen», sorride Vlade a mamma Biserka, lasciandosi cadere nella dolcezza del ricordo. «Dovevo tornare, per lui. Ora va meglio».
Il silenzio di un cimitero bianco di neve si macchia dell' abbraccio di due maglie blu".
Walter Fuochi

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