Quasi 22 anni fa. Fu allora, in quel fine giugno del 1991, che uscì da un campo di basket l'ultima Jugoslavia conosciuta.
Accadde
a Roma, campionati Europei: naturalmente vinti. Timida finalista, l'
Italia non mise becco, anche se almeno, all' epoca, disputava finali.
Magnifica
tra i canestri, la Jugoslavia iniziava a fracassarsi dentro i crepacci
della sua storia. E proprio durante quegli Europei, quando l' esercito
federale attaccò la piccola Slovenia, partì il primo smottamento.
Nel
ritiro della nazionale, prima della semifinale, arrivò un fax da
Lubiana. Jure Zdovc, guardia titolare e unico sloveno del gruppo, doveva
svestire subito la maglia del paese che stava cannoneggiando la sua
gente.
Tirarono avanti gli altri, serbi e croati, bosniaci e montenegrini, già presaghi delle prossime diaspore.
Ai Giochi di Barcellona ' 92 si vide solo la Croazia: seconda, dietro il Dream Team americano.
Sanzionata
con l' embargo per i crimini di guerra, la Serbia riapparve agli
Europei di Atene ' 95, dove le due nazionali nemiche non riuscirono a
condividere neppure il podio: primi i serbi, terzi i croati, questi
ultimi ne scesero agli inni, sfilando via allineati, in una protesta
cupa e muta.
Dai fratelli separati li divisero pure le cene fredde, consumate in un' ultima notte rinserrata nelle stanze dell' hotel.
«Vent'
anni fa», avvia il suo racconto il vocione rauco di Vlade Divac, mentre
guida in una Zagabria brumosa e invernale. Non l' aveva più rivista
dall' estate dell' 89: un' altra medaglia d' oro, tanto per cambiare,
gli Europei vinti in casa.
Ora 42 enne, quello che scivola sulle
strade dell' ex Jugoslavia è un ex pure lui. Ex pivot dei plavi, gli
azzurri della nazionale. Ed ex pivot dei Lakers, adorato da Magic
Johnson.
Guida, l' omone stempiato e appesantito, braccando ombre
del passato. Troverà una tomba su cui lasciare una foto: l' abbraccio di
due giganti giovani e forti. Uno è lui, l' altro Drazen Petrovic.
Quello sepolto lì.
Once brothers, si chiama la storia, diventata
film. «Un tempo fratelli». E poi non più. Cresciuti insieme, fra sogni e
trionfi. Capaci poi, giocandosi contro nella Nba, uno ai Lakers e uno
ai Blazers e poi ai Nets, di non scambiarsi una parola, anche
sbattendosi addosso. E perché mai? Perché Vlade è serbo e Drazen croato.
Li ha divisi la guerra, per un pezzo. E la morte, poi, per sempre.
Drazen Petrovic, il Mozart del basket, tant' era sinfonico e genialmente
unico il suo gioco, si schianta nel ' 93 su un' autostrada tedesca: a
29 anni, dentro una Golf guidata dalla fidanzata Klara, in una sera di
diluvio.
Lascia in tutti rimpianti e in Vlade rimorsi, fino a questo
viaggio che, vent' anni dopo, somiglia a un' espiazione, risalita la
corrente dei pensieri in un paese che fu.
Scende dall' auto, suona a
un campanello, porge un mazzetto di fiori a una signora distinta,
avvolge in un abbraccio un altro vecchio ragazzo: la mamma di Drazen e
suo fratello maggiore, Aza, cestista pure lui.
Cliccatissimo in più
frammenti su Youtube, il film, prodotto dalla Nba e trasmesso dalla
Espn, rievoca la storia di una squadra tra le più belle dello sport
mondiale, intrecciandone vita agonistica e dannazione storica. E' la
guerra civile a spaccarla, non gli avversari. «Io, Drazen, Toni, Dino,
Stojko, Zarko, Zoran...».
L' indice solca le foto in bianco e nero,
toccando Petrovic, Kukoc, Radja, Vrankovic, Paspalj, Savic. Alla
generazione di fenomeni già sbocciano accanto gli implumi Djordjevic,
Danilovic, Komazec, Rebraca.
Il salotto dei Petrovic s' imbeve d'
emozione. «Ero in vacanza alle Hawaii racconta Divac -, sentii le news.
Uno choc». Drazen morto: Denkendorf, 7 giugno ' 93. In auto per caso.
Per
salire e scendere, quella volta il destino usò una scala mobile.
Aeroporto di Francoforte, la nazionale croata s' avvia al volo per
Zagabria, ma appare Klara, trafelata per il ritardo, incrocia Drazen, se
ne vanno insieme.
L' ultima corsa, addosso a un camion uscito di
corsia. Andò a riconoscere la salma Neven Spahjia, amico d' infanzia a
Sebenico, oggi bravo allenatore. Raccontò poi d' avergli trovato in
tasca un foglietto. Tre nomi di squadre, tre cifre: le offerte di Knicks
e Nets nella Nba, e del Panathinaikos Atene. Forse, Drazen sarebbe
tornato in Europa. Ci tornò per un funerale che fermò la sua piccola
patria, trasmesso in diretta dalla tv croata.
E per aspettare, tanto tempo dopo, in questo paesaggio d' ombre e di neve, l' amico perduto. Ma quando?
Buenos Aires, Mondiali ' 90.
Scorre
sul video una scena ormai solita. Hanno vinto ancora, i giganti slavi.
Campioni del mondo. E saltano felici e abbracciati, quando irrompe nel
crocchio un tifoso, agitando una bandiera croata. Divac la butta via.
«Siamo Jugoslavia, non Serbia o Croazia», spiegherà poi inutilmente
nelle divampanti polemiche del rientro. «Alcuni capirono, Drazen no. Da
allora, con lui qualcosa era cambiato».
Senza parole, di lì in poi.
Muti
e lontani i due che a Rogla, il ritirocaserma sulle alpi slovene dove
nascevano le vittorie, dividevano la camera, «e io tenevo lontane le
ragazze, quante ne venivano per Drazen», sorride Vlade a mamma Biserka,
lasciandosi cadere nella dolcezza del ricordo. «Dovevo tornare, per lui.
Ora va meglio».
Il silenzio di un cimitero bianco di neve si macchia dell' abbraccio di due maglie blu".
Walter Fuochi
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