giovedì 16 maggio 2013

Quella volta che Juary incontrò don Raffaele Cutolo


Tutto accade più di trent’anni fa, il 31 ottobre del 1980. Allora Juary (Jorge dos Santos Filho) è solo uno dei tanti calciatori stranieri arrivati in Italia con la riapertura delle frontiere. Non segna tanto, ma i suo gol sono decisivi per la propria squadra. È lui a porre i primi mattoni di quella che sarebbe stata la favola dell’Unione Sportiva Avellino, il club di una piccola città dell’entroterra campano che all’improvviso si trova proiettato nel paradiso della serie A, a sfidare gli squadroni del Nord, restandovi per ben dieci anni dal 1978 al 1988. Di quella squadra dei miracoli (una sorta di Chievo ante litteram) il giovane brasiliano è il simbolo; non il giocatore più forte, forse, ma di certo il più rappresentativo. Perché anche in quell’epoca, in cui non c’è la pay-tv e per vedere i gol bisogna attendere “90’ minuto”, Juary non può passare inosservato. Con quel suo fisico esile e scattante, e con quella abitudine di celebrare ogni gol danzando come un indemoniato attorno alla bandierina, l’attaccante cresciuto nel Santos (la squadra di Pelé) diventa una piccola star del campionato più bello del mondo.
L’altro protagonista di questa storia è Antonio Sibilia, il presidente di quell’Avellino. Un omone di circa sessant’anni, imprenditore di successo nell’edilizia, folcloristico come molti dei massimi dirigenti sportivi degli anni ottanta. Sempre in difficoltà quando si tratta di usare la lingua italiana, ma abilissimo ad allestire squadre competitive.
Un giorno, quel 31 ottobre del 1980, Sibilia passa a prendere Juary, gli fa saltare l’allenamento previsto, e lo porta a Napoli. Insieme vanno a Castel Capuano, la vecchia sede del tribunale partenopeo, dove si sta celebrando l’udienza di un processo che vede tra gli imputati Raffaele Cutolo, il don Raffae’ dell’omonima canzone di De André e boss della Nuova Camorra Organizzata, a quell’epoca la massima organizzazione malavitosa della zona. Entrati in aula, sotto lo sguardo incredulo di giornalisti, forze dell’ordine e magistrati, Sibilia si avvicina alla gabbia in cui è rinchiuso “o professore”. Lo saluta con tre baci sulle guance, e scambia con lui un paio di chiacchiere cordiali. Poi dà spazio a Juary, il suo pupillo, che si avvicina alle sbarre e porge a Cutolo un pacchetto. Dentro c’è una medaglia d’oro da 70 grammi; su una faccia è raffigurata la testa di un lupo, simbolo della società irpina, e sull’altro c’è una dedica: “A don Raffaele Cutolo, con stima”.
A cose fatte, e prima di lasciare l’aula, Sibilia trova il tempo di spiegare alla stampa quel gesto. “Niente di strano – dice – Cutolo è un supertifoso dell’Avellino; il dono della medaglia non è una mia iniziativa, è una decisione adottata dal consiglio di amministrazione”.
L’episodio però non può passare inosservato. Se ne interessa la magistratura, con il sostituto procuratore Diego Marmo che apre un fascicolo per apologia di reato. Ma prima di lui a occuparsi dei legami tra la proprietà dell’U.S. Avellino e la Nuova Camorra Organizzata è Luigi Necco, giornalista della Rai e inviato proprio nel capoluogo irpino per la trasmissione 90° minuto.
Necco, suo malgrado, è il terzo protagonista di questa storia. Prima ancora dell’omaggio ufficiale a Cutolo, il cronista inizia a interessarsi degli strani legami tra la società avellinese e la potente organizzazione camorristica. Ne parla anche in un’inchiesta in sei puntate per la Rai, in cui ricostruisce la storia dell’amicizia tra il commendatore irpino e il boss di Ottaviano, riporta le voci legate al calcio scommesse e alle truffe legate agli appalti.
E proprio l’interessamento del giornalista napoletano può spiegare l’inusuale visita a Cutolo di Sibilia e Juary. Quel giorno, come racconta anni dopo lo stesso Necco, Sibilia va a trovare il boss per chiedergli un favore specifico: vuole che dia una “lezione” a quel cronista impiccione, che lo metta finalmente a tacere. A esaudire la richiesta di Sibilia non è però Cutolo, che non ci tiene a esporsi colpendo un giornalista, ma un suo solerte luogotenente, Enzo Casillo, ansioso di acquistare visibilità nell’organizzazione. Poco più di un anno dopo, il 29 novembre 1981, Necco viene gambizzato con tre colpi di pistola a Mercogliano, alla periferia di Avellino, all’uscita del ristorante in cui si recava prima di ogni partita. Sulla sua auto viene anche trovato un biglietto: “Tu vuliv’ fa o criticone?”.
Oggi Cutolo si trova nel carcere di massima sicurezza di Terni, dove sta scontando quattro ergastoli in regime di 41 bis.
Sibilia, ultraottantenne, vive ancora nella sua Avellino, circondato dall’affetto di amici e parenti (il figlio Cosimo è l’attuale presidente della Provincia). E’ stato arrestato nel 1983 in un maxi blitz anticamorra ordinato dalla procura di Napoli e processato con l’accusa di aver preso parte (guarda caso con il figlio di Cutolo, Roberto) a un una truffa da 85 miliardi su un appalto per la costruzione di 1040 alloggi prefabbricati nell’Irpinia del dopo-terremoto, e di essere il mandante dell’attentato all’allora sostituto procuratore Antonio Gagliardi del 13 settembre 1982. In entrambi i casi è stato assolto con formula piena al termine dei tre gradi giudizio.
Juary, dopo aver lasciato l’Avellino ha giocato nell’Inter e in diverse squadre minori, per poi chiudere la carriera nel Porto, dove ha vinto anche una Coppa dei Campioni segnando la rete decisiva nella finale contro il Bayern di Monaco. In seguito ha allenato diverse squadre giovanili in Italia e all’estero (Avellino compreso) per poi finire sulla panchina del Sestri Levante, in serie D.
Di quell’episodio accadutogli a Castel Capuano, oltre trent’anni fa, probabilmente avrà pure perso memoria. Vittima inconsapevole di una storia più grande di lui e troppo in fretta dimenticata.


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