venerdì 7 novembre 2014

LA BALLATA DEI BLAUW EN ZWART

Di quell’Achille viennese, di nome Ernst Happel, grintoso, energico, prestante, che da giocatore batteva i rigori senza prendere la rincorsa, e che girò l’Europa con il suo tempo di valzer, immortalato da artisti fiamminghi nella sua ballata di Bruges, quando per un soffio, per una contingenza di avversità, non riuscì a poggiare in mezzo ai quadri di Van Eyck e Petrus Christus, la Coppa dei Campioni, il trofeo dalle grandi orecchie che preferì inconsciamente i docks di Liverpool ai pinnacoli romantici e suggestivi di Grote Markt. Il Bruges di Happel resta fiaba dai volti acerbi e bellissimi, stesi a olio sulla tela verde del campo. Perché nel blasone dei condottieri carichi di onori, vittorie e riconoscimenti, Happel e il suo Bruges occupano l’altra colonna, quella degli sconfitti, degli uomini forse da dimenticare, che non sarebbero mai dovuti nascere per non essere battuti. La storia è così, anche nel calcio: scritta dai vincitori, dimentica i vinti, coperti di discredito. Ma la vera vicenda è scritta anche dai perdenti, che in molti casi con le loro sconfitte, spesso ingiuste, hanno insegnato molto più ai loro contemporanei, e naturalmente anche ai posteri, di quanto non lo abbiano fatto tanti vincitori. Nel 1973 lo stadio Jan Breydel (che allora si chiamava Olympia Park), situato a ovest del centro cittadino dove il gotico si evolve in sintesi di periferia popolare, vede terminare l’era di Leo Canjels soprannominato “Het Kanon”, e incomincia a scorgere trame di assoluta novità stilistica.

Happel è un maniaco della preparazione fisica. Più volte sveglierà i suoi ragazzi a orari da stretto pendolarismo operaio, per sedute improvvise di allenamento come quella volta prima di prendere un aereo per Roma per un incontro di Coppa. Ernst è un innovatore, un precursore del calcio totale, un gestore degli afrori di spogliatoio. Qualcuno dei suoi più o meno affettuosamente lo chiamerà il “profeta” dei quattro comandamenti «correre, correre, correre, e disciplina». In sostanza da buon viennese, aveva capito fin da quando era calciatore, che le squadre per vincere devono essere vere e proprie orchestre, capace di muoversi in perfetta sintonia senza che nessuno errasse i tempi di battuta. E le sue filarmoniche, esprimevano un gioco velocissimo per quei tempi, terribilmente aggressivo, magari non bellissimo da vedere come era quello dell’Ajax, tuttavia cinico e pratico. Nel 1976 conquistò il titolo nazionale e contemporaneamente la finale di Uefa, persa contro il fortissimo Liverpool. Ed eccola la bestia nera, anzi rossa, il prodromo della paura, che negherà ogni gioia continentale ai fiamminghi.

La stagione successiva vedrà ancora un successo in campionato, nondimeno il Bruges non si accontentò e vincerà anche la coppa del Belgio, centrando un invidiabile doppietta. Nei “Blauw en Zwart” emergono figure decisive come il portiere danese Birger Jensen, il terzino Fons Bastijns, il centrale austriaco Eduard Krieger, il mediano Julien Cools, il terribile regista mancino Renè Vandereycken, il rifinitore Paul Courant e un centravanti dalle splendide doti atletiche, che si trovava a perfetto agio nella gabbia foriera di gloria dell’area di rigore: il bomber Raul Lambert. Accanto lui per regalarsi il terzo titolo consecutivo nel 1978, ecco il danese Jan Sorensen, noto rompiscatole di difensori avversari, voluto fortemente dal tecnico austriaco che lo prelevò dal Frem di Copenaghen. Un tipo da far venire i brividi per il modo con cui dribblava, calciava e si muoveva. In quella stagione il Bruges sponsorizzato in campionato “49 R jeans”, galoppò, in questo secondo caso senza pubblicità sulle maglie per le normative europee (come cambiano i tempi perbacco...), verso Wembley a giocarsi la finale della Coppa dei Campioni. E lo farà con grande carattere. Solo l’anno prima aveva sfiorato l’impresa sui vicecampioni del ‘Glandbach. E' un calcio freddo, ragionato, quello del “Club Brugge”, fra recuperi, polmoni a stantuffo di valenti portatori d’acqua, e estrose prodezze di giocatori di classe.

La loro, è stata davvero una cavalcata fino a Londra.

Eliminati facilmente KuPS e Panathinaikos, i belgi faranno fuori l’Atletico Madrid. Una faticaccia impensabile dopo il 2-0 raccolto fra le mura amiche. In Spagna alla scadere della prima mezz’ora sono sotto 2-0 ed il conto a distanza era nuovamente in parità. Poi, al 60′esimo Cools segnerà un 2-1 pesantissimo, che costrinse i “Colchoneros” a dover segnare ben due reti per agguantare la qualificazione. Una la troveranno subito, e allora come in un giallo di Georges Simenon la “verità” restò in bilico, ancora per altre cinque pagine, cinque minuti: il tempo che Lambert depositi in rete la palla del 3-2, che non salvò il Bruges dalla sconfitta, ma che valse la semifinale contro la Juventus. La squadra italiana si presentò da netta favorita e sognando di approdare alla sua seconda finale di Coppa Campioni. Al Comunale di Torino a quattro minuti dalla fine segnò Bettega e finirà 1-0 per i bianconeri. A Bruges, Bastijns ci mise invece solo tre giri d’orologio per pareggiare il conto delle marcature. Si andrà ai supplementari e qui, quando cominciò a profilarsi all’orizzonte lo spettro dei rigori, al 116′esimo arrivò il centro decisivo del rapace Vandereycken. Finirà 2-0. Due contropiedi da manuale, ben 25 i fuorigioco cercati e trovati dall'altissima linea difensiva dei belgi. Giovanni Trapattoni, tecnico dalla Juve, si recò in conferenza stampa pallido come uno strofinaccio affermando:

“Sono senza parole, non ho mai visto niente del genere!”.

Mentre intanto Ernst Happel visibilmente soddisfatto, seduto in spogliatoio sorseggiava un bicchiere di cognac, e fuori, trentamila persone scandivano il suo nome.

A Wembley.

E così il fiorente centro medievale delle Fiandre occidentali famoso per la produzione di merletti e tessuti, intersecato da numerosi canali che sfociano nel Mare del Nord se andò con sua squadra a Londra alla difficile ricerca di quel Graal che avrebbe potuto cambiare la storia del Club. In tantissimi arrivarono nella capitale inglese dal Belgio, e ogni tanto tremava nell'aria uno stendardo fiammingo, ma sono pochi, troppo pochi, nel mare rosso dei novantamila calati da Liverpool e da ogni parte d’Inghilterra per sostenere la squadra già leggendaria di Bob Paisley.

Il 12 maggio del 1978 era una serata perfetta a Londra, con il cielo sereno, e la temperatura primaverile. Nelle orecchie, sputati dagli altoparlanti, i Bee Gees, i Genesis, e Kate Bush. Il Liverpool in rosso, il Bruges in bianco, in un contrasto cromatico che rese grazie al Dio al calcio. Il primo tempo terminò a reti inviolate con un Liverpool senza la solita “verve” ed incisività di gioco, ed un Bruges impegnato, anche a causa di assenze pesanti, come quella del faro Lambert e del perno difensivo Jos Volders, per lo più in un lavoro di contenimento. Nella ripresa il Liverpool sostituirà Jimmy Case con Steve Heighway. L'intenzione era chiara. Per cercare di forzare il risultato, gli inglesi infittirono la linea d'attacco. Fu una decisione che verrà subito coronata dal successo. Al termine di un azione iniziata da Souness e sviluppata da McDermott, il folletto Dalglish sorprese Jensen con un pallonetto basso nell'angolo opposto della porta e impazzito di gioia saltò correndo verso i suoi tifosi. Il Bruges deluso e arrabbiato non mollò. Al 35'esimo mancò per un soffio il pareggio. Con un disperato intervento sulla linea di porta, Thompson riuscì a deviare un tiro rasoterra di Sorensen quando Clemence pareva ormai già battuto. Il Bruges perse, e nonostante le illustri mancanze, e il fatto di giocare praticamente fuori casa, giocò probabilmente, anzi, meglio dei reds.

Insomma l’abbiamo detto, il calcio è un mondo abbastanza strano, forse troppo strano. E' riconoscente con alcuni, meno con altri, e tra quelli c'è sempre chi avrebbe meritato più celebrità. Un po’ come il Bruges del signor Happel.

di Simone Galeotti.


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