venerdì 7 novembre 2014

LE POTEAUX CARRES

Affrontare i propri demoni per uscire dal baratro.

In sociologia si parlerebbe di riappropriazione di una parola o di un oggetto considerato beffardo, ma che in tempi successivi è stato fatto proprio da chi era l’obiettivo di tale irrisione. Un fenomeno curioso di cui a Saint Etienne cittadina francese adagiata tra le incantevoli valli della Loira e del Rodano ne vanno particolarmente fieri.

Tutto partì da una telefonata verso la Scozia..

“Eh, buongiorno, parlo con il curatore del Museo di Hampden Park?”

L’ accattivante accento francese, s’infila con perizia nell’orecchio ben più esposto ai grugniti gutturali di Glasgow.

“Si, chi è?”

“Molto piacere, sono il responsabile del Geoffrey Guichard, lo stadio del Saint Etienne, vi ricordate quando nel 1976 abbiamo giocato la finale della Coppa dei Campioni nel vostro stadio contro il Bayern Monaco?

“Si, ed avete perso.”

“Oh, certo,.. ma infatti, in fondo è per quello che la sto chiamando.”

Silenzio. All’altro capo del telefono, nell’ufficio nelle cui ampie finestre, il grigio del cielo si staglia sul verde della zona di Mount Florida, la solida scrivania in noce sta per essere investita dallo schianto della cornetta sul ricevitore…

“No, no, un momento, non sto scherzando, vengo subito al punto, vogliamo comprare i vostri pali delle porte, quelli quadrati... Che adesso avete sostituito, e messo in vetrina...”

Alla parola comprare, da atavico gene mai represso, lo scozzese, riacquista compostezza e serietà.

“Cosa? Volete comprare pali e traverse del vecchio Hampden?”

“Esattamente. Ci hanno portato talmente tanta sfortuna in quella partita, che ci piacerebbe esorcizzare quel momento mettendoli in bella mostra nella nostra sala dei cimeli, al Musèe des Verts...”

Lo scozzese prende tempo. I francesi sono strani e un po’ bigotti, quasi peggio degli inglesi, pensa tra se e se, poi risponde.

“Dovrei consultarmi, con la federazione, con i rappresentanti del…

“Ventimila sterline.”

Una sentenza.

“Affare fatto. Le spese di imballaggio e viaggio a carico vostro però…”

“Certamente... Grazie. Gentilissimi.”

Fu così che tre pezzi di legno consunto e per lo più sverniciato, prenderanno la direzione della Loira, dove saranno esposti nel museo dello stadio dell’ASSE affinché tutti i tifosi del Saint Etienne provino a scongiurare la loro nemesi maledicendo quella traversa, che ora riposa dietro una teca, giurando di averla vista tremare ancora per il tiro di Dominique Bathenay. Non troverete nessuna squadra al mondo pronta ad incolpare il destino beffardo del “borseggio” di un trofeo in bacheca, accusando un colpevole più originale di quello chiamato in causa dal Saint Etienne.

Nel 1976 i Verdi della Loira stanno dominando il calcio francese con la loro supremazia incontrastata. In 13 anni sono arrivati ben otto titoli di campione di Francia, e nella stagione ‘74-‘75 hanno vinto tutte e diciannove le partite casalinghe.

Così tanto tanto per gradire.

L’ASSE (come viene comunemente chiamato dall’acronimo) divenne talmente sinonimo di calcio e vittoria che se oggi la nazionale francese viene chiamata da tutti “Les Bleus”, si deve proprio alla popolarità del Saint Etienne negli anni settanta ed al loro soprannome cromatico, “Les Verts”: per assonanza e per associazione diretta di idee, nonché per la presenza massiccia di giocatori in nazionale, anche la squadra con il gallo sul petto cominciò ad essere chiamata per il colore di maglia, nel coro ormai consolidato "Allez les Bleus".

Il Saint Etienne dell’ineffabile Robert Herbin, imbattibile nel fortino del Geoffrey Guichard nell’anno di grazia ‘74-’75, aggiunse ad una formazione già straordinaria, l’esplosione di Dominique Rocheteau, incantevole ala destra con notevole propensione al gol, che alla sua prima stagione da titolare (e nemmeno a tempo pieno), fermerà il contagiri delle marcature ad undici, dando nuova linfa ad un reparto offensivo già clamoroso di suo, col capitano Jean Michel Larqué, Jacques Santini, e il baffo da villaggio gallico di Hervè Revelli, sempre pronto a dar supporto a centrocampo. Il titolo nazionale diventò una formalità per i verdi e la conquista dell’Europa il sogno nemmeno tanto segreto. D’altra parte l’anno precedente si erano fermati soltanto in semifinale di fronte al Bayern che avrebbe poi alzato la Coppa al Parc des Princes contro il Leeds United, in una delle finali più burrascose di sempre.

Questa volta sembrava l’anno buono. I verdi arrivarono fino in fondo.

Mercoledì 12 maggio 1976 l’ASSE, è in finale di fronte ai soliti tedeschi guidati dalla faccia mansueta da ragazzo del coro di una chiesa bavarese chiamato Franz Beckenbauer.

Un mare verde sciaborda per le strade di vittoriane di Glasgow, da George Square a Buchanan Street, per poi scorrere come unica corrente verso Hampden e verso la storia, dopo che l’ultima formazione francese a giocarsi il trono d’Europa sul finire degli anni cinquanta era stato lo Stade Reims che inesorabilmente aveva sbattuto due volte la testa sullo scoglio bianco del Real Madrid.

Il Bayern detentore del titolo è una corazzata alla sua terza finale consecutiva con una spina vertebrale formata da Sepp Maier in porta, il Kaiser al centro della difesa, un giovane di grandi speranze Karl Heinz Rumenigge schierato per rispetto delle gerarchie in mezzo al campo, e una coppia d’attacco composta da Gerd Muller e Uli Hoeness.

Il Bayern come sempre fa quello che gli viene meglio: attende gli avversari, si difende, cincischia, aspetta il momento buono per colpire.

Il Saint Etienne invece attacca. Una melodia alla quale non rinuncia. La vocazione offensiva non si tradisce, anche se a dirla tutta per la partita più importante dovette fare a meno di Rocheteau, infortunato, solo e triste in panchina, al fischio di inizio dell’arbitro ungherese Károly Palotai.

L’assenza sarebbe stata sicuramente meno pesante se non ci avesse messo lo zampino il destino: per due volte, il Saint Etienne andò vicinissimo al gol. Prima Bathenay con un bel destro da fuori e poi Santini di testa battono Maier, ma non la maledetta traversa. Ed è proprio la traversa che diventerà il capro espiatorio per tutti i tifosi della Loira, perché in quell’ Hampden Park dove ancora il legno primeggiava sul cemento, le porte avevano una caratteristica unica, fuori tempo, e fuori moda: dal 1904 infatti i montanti, pali e traverse, non sono rotondi come negli altri stadi del mondo, ma sono squadrati, dei blocchi tetragoni su cui i tentativi di Bathenay e Jacques Santini vedranno, come in un incubo scritto da Guy de Maupassant, il pallone rimbalzare crudele verso il centro dell’area di rigore, piuttosto che accarezzarlo dolcemente verso la rete, come certamente avrebbe fatto la rotondità, conforto e simbolo di sicurezza materna.

Sì, va ammesso, è una teoria stravagante, ma in fondo chi siamo noi per negare al Saint Etienne la gioia di un simile:

“E se fosse stato così?”

Tant’è, come da preciso copione drammatico, gli scaltri bavaresi colpiranno all’inizio della ripresa con un gol di Franz Roth, discreto mediano di rottura, che aveva il compito di annullare capitan Larqué, mentre l’ASSE si ritrovò a piangere lacrime sui quei “pali quadrati”, quei poteaux carrés, che li perseguiteranno da lì in poi, diventando automaticamente sinonimo della loro squadra: in primis, simbolo di scherno da parte di tifosi avversari, poi come oggetto di osservazione della FIFA che ratificò in via ufficiale la legge sulla rotondità dei montanti proprio in seguito a questo episodio.

Quando l'arbitro fischiò la fine della partita Roth ancora prima di abbracciare i compagni corse verso Larqué che non aveva lasciato in pace per tutto il match per scambiarci la maglia, come a onorare immediatamente la sfortuna riconosciuta del povero Saint-Etienne. Gli dette la mano e una pacca sulla spalla per confortarlo. Bel gesto. Robert Herbin restò qualche minuto in piedi accanto alla panchina, immobile, come qualcuno che ha perso il treno della sua vita, e sa che difficilmente potrà ripassare. Aveva gli occhi rossi, poi sparì nelle viscere scure di Hampden. Nello spogliatoio, nessuno parlò. Lopez, Santini, Repellini, erano in un vuoto di pensiero, nell’ attesa vana di dimenticare. Patrick Revelli, inconsolabile.

Quando Herbin arrivò spese parole semplici, poi un funzionario con voce formale disse che occorreva andare a ritirare le medaglie d'argento.

Ridicolo. Ci andrà il capitano, era un obbligo, occorreva farlo. Larqué non aveva più nemmeno la maglia. Vagamente riconobbe Artemio Franchi il presidente italiano dell' UEFA. La consegna fu veloce. Jean Michel restò impermeabile alle parole di consolazione.

Ritirò le medaglie, non guardò intorno a se. Strinse la mano intontito.

Non vedeva l'ora di tornare a casa. Dagli amici. Lì faceva male ..

di Simone Galeotti.


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